“Il miracolo dei rei’ narra una storia che ha cambiato il territorio del Sarrabus in 75 anni. Ne parla la regista Alessandra Usai
Ci sono fatiche aspre, sofferenze e lutti nella storia del territorio, oggi fertile, di Castiadas. La racconta “Il miracolo dei rei”, film documentario di 52 minuti scritto e diretto da Alessandra Usai e prodotto da Nicola Mennuni, Massimo Casula e dalla stessa regista.
L’opera punta i riflettori sull’intervento “miracoloso” dei condannati ai lavori forzati nella più grande colonia penale agricola d’Italia, e una delle più grandi d’Europa, appunto quella di Castiadas. I rei, dal 1875 al 1956, operarono per bonificare un’area paludosa e malarica di 6500 ettari disabitata da più di tre secoli.
La narrazione muove dallo sbarco a Cala Sinzias, nell’agosto 1875, di alcuni detenuti e degli agenti di custodia guidati da Eugenio Cicognani, che fu direttore delle carceri. Avevano il compito di eseguire opere di bonifica idraulica ed agraria della campagna rimasta disabitata dall’età aragonese a causa della malaria e delle epidemie di peste. E si restituiscono gli aspetti sociali di un sistema carcerario fondato su rieducazione e riscatto in un contesto ambientale ostile.
«È un docufilm, raccontiamo storie vere ma vogliamo arrivare al cuore delle persone», ha detto il produttore Nicola Mennuni nell’incontro con il pubblico cagliaritano durante l‘edizione 2022 di Nottetempo organizzata da Spazio 2001. Le proiezioni sono andate subito sold out e gli organizzatori della rassegna cinematografica a Sa Manifattura hanno proposto altre date.
E l’opera di Alessandra Usai – curata nei dettagli di fotografia, costumi e musica – ha convinto pubblico e critica. Ha infatti ricevuto numerosi premi in Italia e all’estero: Miglior regia al Rome International film festival, Miglior documentario a Edinburgh International film festival, Historical documentary al London International Film Festival, Best cinematography al Instanbul Film Award, Best director al Filmysea in India e Best director al Milan Gold Award).
Per la regista cagliaritana, che ha vissuto quasi sempre tra Milano e Dublino, è il primo progetto realizzato in Sardegna dove, a fine 2019, ha fondato la nuova casa di produzione Nical Films con sede a Cagliari (entrata a far parte della società irlandese Hypatia Pictures). La produzione è quindi guidata da Nical Films con Zena Film, Hypatia Pictures e in associazione con Luce Cinecittà
“Il miracolo dei rei” è stata girato per intero in territorio di Castiadas. Il cast è composto da Katia Monni, Nunzio Caponio, Matteo Pianezzi, Mauro Racanati e Mauro Addis. La voce della narratrice è di Michela Atzeni. «Da sarda sono affascinata dalla bellezza della Sardegna. Quella di Castiadas non è divina ma è una bellezza che hanno creato gli uomini in una circostanza dolorosa», riferisce Alessandra Usai a SE24.
Perché proprio questa storia?
«Ho scelto questa storia perché provengo da Villasimius e i miei bisnonni avevano i terreni al confine con Castiadas: le mie radici fanno parte di quei luoghi. Castiadas è stato un territorio malarico e disabitato per 350 anni. Pensare che nell’arco di 75 anni colpevoli e carcerati abbiano trasformato un luogo di morte in un paradiso qual è oggi per me è un miracolo e volevo raccontare la trasformazione di questa terra».
Il metodo che vi ha guidato è sempre stato quello del rigore dei dati certi?
«Assolutamente. Il documentario storico deve restare fondato sui dati scritti. Altrimenti ci vuole poco, non avendo testimoni, a perdere la linea e a diventare una fiction totale. Quello che abbiamo fatto si basa solo su documenti ufficiali d’archivio, con lettere trovate in Archivio di Stato, in quello della Diocesi o in altre carceri. O con gli articoli di giornale del giornalista Felice Senes».
Ha anche conosciuto uno degli ultimi carcerati.
«Negli anni Cinquanta si era fatto un triennio. È andato via dall’isola dopo che ha scontato la pena e si è costruito una famiglia. Aveva imparato a fare scarpe durante la detenzione e ha continuato questo a farle tutta la vita. La sua vicenda, scoperta dalla figlia solo negli ultimi anni e mai raccontata, mi ha fatto pensare. Mi ha detto non voler tornare perché là aveva visto le celle oscure di cui non ci sono testimonianze e documentazioni ma solo voci e racconti».
Quanto tempo ha preso la scrittura del docufilm?
«La ricerca è durata tre/quattro mesi ma in realtà non abbiamo mai finito perché abbiamo continuato mentre si lavorava in pre-produzione e anche in post produzione. I dialoghi li ha curati l’antropologa Claudia Zedda e insieme abbiamo cercato di dare una voce in base alla sceneggiatura che avevo scritto e in base alle scene girate, perché alcune sono cambiate per questioni logistiche».
Quali sono i prossimi progetti?
«Come casa di produzione ne abbiamo tantissimi. Uno è cortometraggio che speriamo di girare presto in Friuli Venezia Giulia sulle donne acidificate in Pakistan, da una vicenda vera di un medico di Udine. Poi un’altra storia su cui stiamo lavorando da tre anni e a cui ci tengo tantissimo: è il film tratto da “Janàsa”, il libro di Claudia Zedda su una figura di janas. È un romanzo che ha anche un suo senso contemporaneo. Nel 2022 abbiamo iniziato lavorare con la sceneggiatrice Antonia Iaccarino e riscritto il trattamento tre, quattro volte. Abbiamo già presentato il bando allo sviluppo e siamo già andati a luglio a parlare con vari produttori americani perché vogliamo che sia una produzione internazionale».
Manuela Vacca
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