Paolo fresu

Dalla nostra inviata Manuela Vacca

Paolo Fresu (foto: SE24)

La generosità è una delle doti del musicista Paolo Fresu. Sebbene la direzione artistica del suo Time in Jazz, in corso sino al 16 agosto con il titolo “Rainbow”, lo richieda a tempo pieno, non si sottrae a chi lo ferma per un saluto, per una foto che scintillerà in un post sui social. Nella sua Berchidda raggiungere il bancone del bar per un caffè dopo pranzo è un premio guadagnato dopo un felice slalom di incontri e soste tra chiacchiere e sorrisi.

Non esiste distanza, non ci sono filtri anche se la sua è una fama internazionale. Ed è qualcosa che va oltre la gentilezza verso le platee di fan. È attenzione all’altro. Con altrettanta generosità si concede all’intervista per SE24, chiedendo ospitalità in uno degli uffici che mandano avanti la complessa macchina della manifestazione. Racconta di un concetto di festival che non consiste nella giostra di artisti sopra un palco. Infatti è molto di più, un laboratorio umano ininterrotto che ha fecondato un territorio intero esaltandone la specificità.

Time in jazz è alla 35esima edizione e sono tempi difficili. È un compleanno particolarmente importante?

«Lo è, ma in realtà bisognerebbe festeggiare oggi anno perché i tempi sono talmente duri e difficili che è un traguardo fare un festival con questa qualità e con questo tema. Non è solo il tema della pace.

Quando abbiamo strutturato il festival non c’era ancora il conflitto in Ucraina. Era il tema dell’uguaglianza, delle diversità, dei diritti umani, del rispetto del territorio e dell’ambiente. Affrontare oggi un tema così coraggioso fa sì che questa edizione sia particolarmente importante, ma in realtà tutte lo sono».

Il tema di quest’anno è legato alla pace e alla diversità, la ricchezza espressa nella convivenza con valori dissimili. Perché è necessario affermare oggi questi valori?

«Stiamo tornando indietro, stiamo andando al medioevo e sempre di più bisogna affermare dei valori che sembrano essere stati costruiti. Penso alle battaglie sulla sessualità, penso a

Franco Grillini che ha creato l’Arcigay e si è battuto per i diritti di tutti, nostro ospite a Berchidda (Ndr: lo storico attivista dei diritti Lgbt sarà protagonista dell’incontro del 15 agosto, alle 11, nella chiesa campestre di Santa Caterina). Quelle sono battaglie vinte. Non completamente ma comunque vinte.

Oggi si tenta di distruggere tutto il lavoro fatto. Sempre – e in momenti come questo in cui i valori e le battaglie vinte si mettono in discussione – è importante sottolineare che l’umanità è ricca nella sua diversità. Va affermata tutti i giorni, va condivisa e soprattutto garantita. Ognuno ha la pelle con cui nasce, ha un pensiero rispetto alle cose del mondo, ha un orientamento sessuale. Ognuno ha diritto di essere sé stesso. Al di là della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ogni giorno bisogna tentare di affermare l’uguaglianza come prima scommessa dell’uomo nel suo futuro».

Dietro ci sono tantissimi anni di lavoro e generazioni cresciute con il festival. Come risponde il territorio?

«Il territorio risponde bene perché ha compreso che, al di là che uno lo ami o meno, il jazz è fattore attrattivo importante che porta economia. L’ultimo studio sull’impatto economico, fatto ormai otto anni fa, dimostrava che per ogni euro pubblico investito tornavano sei euro.

Poi esiste un ritorno in quell’architettura umana, nelle relazioni e nella scoperta del territorio stesso grazie al fatto che portiamo le persone in luoghi dove probabilmente non sarebbero mai andate. Quindi c’è una scoperta diversa della Sardegna dell’interno e anche quella della coste. Questo dà un senso speciale della musica e della cultura e fa sì che la Sardegna si mostri per quello che è.

Non si tratta allora solamente di fare un festival portando un musicista sul palco ma è qualcosa di molto più complesso: fare del festival un grande laboratorio culturale e umano che, partendo dalla musica, conduca in luoghi molto più lontani».

E com’è cambiato Berchidda?

«Il paese è cambiato molto. Sicuramente è cambiata l’architettura umana ma anche sociale perché il festival ci ha anche permesso, visto con gli occhi degli altri, di scoprire cose che per noi erano normali come il Limbara e il lago Coghinas. Ma nel momento in cui passa attraverso gli occhi degli altri diventa straordinario. Avere una specificità è importante».

Nel festival c’è sempre stata attenzione nella formazione musicale dei giovanissimi ma oggi sembra maggiore rispetto al passato. Cosa succede?

«Ci siamo posti il problema del ricambio generazionale, anche se qui a Berchidda c’è ancora una generazione di giovani che frequentano il festival ed evidentemente ne apprezzano la dimensione umana. Ma un festival che non si preoccupa di parlare ai piccoli è di per sé quasi morto.

Crediamo che la propedeutica per la primissima infanzia sia fondamentale. Non è un festival per grandi e basta. È un festival per tutti. C’è una comunità di piccoli che ha bisogno di essere presa per mano, sensibilizzata sui temi della musica. Con mia moglie Sonia quattordici anni fa, quando è nato nostro figlio, abbiamo realizzato il progetto “Nidi di note”, dedicato all’infanzia, portando musica nei nidi e nelle scuole elementari per far sì che si potessero finanziare dei corsi di musica e raccontare che la musica è fondamentale nella crescita individuale e collettiva.

Sentiamo questa responsabilità verso le nuove generazioni e da diversi anni stiamo portando avanti dei progetti per i bambini con “Time to children”. Dallo scorso anno abbiamo iniziato anche “Time to campus”, il campus estivo di luglio dedicato alle fasce più giovani dove la musica è il collante di tutta una serie di attività legate alla natura, alle arti, allo yoga, alla cucina».

A proposito: Paolo Fresu e il cibo?

(Ride) «Paolo Fresu ama molto il cibo e il vino. In giro per il mondo è un grande piacere scoprire le cose anche attraverso l’enogastronomia. Conosco pochi musicisti che non amano la buona cucina. Sarebbe una sconfitta clamorosa: non amare la buona cucina è una maniera per non amare il buon vivere».

Da tempo il festival ha al suo centro la sostenibilità, anche quella energetica. Cosa avete imparato di nuovo?

«Undici anni fa, per i miei 50 anni, facemmo un tour di 50 concerti che era totalmente sostenibile sul piano energetico, alimentato a energia solare per il 95 per cento. Adesso, fortunatamente, questo tema è affrontato da tanti altri anche nei grandi eventi.

Oggi abbiamo un nuovo sistema che è molto più performante e permette concerti molto più lunghi ma il palco centrale a Berchidda non è alimentato ad energia solare perché, in generale, è difficilissimo farlo con i grandi palchi. Abbiamo però lavorato con luci al led e l’emissione carbonica è molto inferiore rispetto al passato. Il mio obiettivo entro tre, cinque anni è rendere anche il palco centrale totalmente sostenibile sul piano energetico.

Alla politica bisognerebbe però chiedere che il risparmio energetico sia alla portata di tutti, cosa che non è. Per installare quanto serve per rendere la mia casa totalmente autosufficiente attualmente devo spendere una barca di soldi. Quindi diventa responsabile solo chi può permetterselo».

Quali sono i passi per il futuro in questa direzione?

«Siamo attenti agli aspetti della raccolta differenziata, invitiamo le persone a viaggiare in una stessa macchina, usiamo l’energia solare nei concerti in campagna ma non basta. Per rendere autosufficiente il palco centrale servirà investire molti denari. Siamo perciò a un bivio: o facciamo un festival e paghiamo gli artisti o dobbiamo trovare altre risorse economiche per fare quel palco. Oppure cerchiamo una via di mezzo. È una questione complicata che però dobbiamo affrontare perché il futuro dipende da noi e dalle nostre scelte».

(Il tema dell’anno prossimo non si po’ svelare ma anticipa qualcosa)

«Abbiamo la responsabilità di spingere ancora di più sull’acceleratore per queste tematiche».

E in generale qual è il domani del festival secondo Paolo Fresu?

«È luminosissimo, come l’arcobaleno. Siccome ogni giorno arrivano temporali… gli arcobaleni saranno molti. Soprattutto non parliamo più di “festival” perché siamo molto oltre il concetto di festival.

Ci basta dimostrare che un paese come Berchidda può essere un grande laboratorio perenne, dove il festival ha dato il via a una serie di progetti che non si consumano nei dieci giorni della manifestazione ma che vanno avanti tutto l’anno.

Questa è una risposta contro lo spopolamento ed è una risposta positiva al fatto che se non fosse nato a Berchidda non sarebbe stato lo stesso festival. Questo significa pure che i piccoli centri hanno una potenzialità enorme».

Ma non è tutto.

«I prossimi progetti riguardano due bandi vinti. Il primo si chiama “Berchidda il paese della EcoJazzisità”, in cui mettere insieme tutte le realtà musicali del paese. Partirà nel mese di settembre e faremo un concerto a Sassari il 27 dicembre.

Poi stiamo chiudendo un film sulla vita musicale di Berchidda che è continuazione del progetto dello scorso anno “Sa banda sa musica sa festa” ma stavolta coinvolgendo tutte le realtà musicali.

Poi c’è, soprattutto, “Insulæ Lab” che è il primo centro di produzione jazzistico delle isole del Mediterraneo. Abbiamo vinto il bando e iniziamo alla fine di settembre per tre anni. Arriveranno a Berchidda musicisti da tutta Europa, specie dalle isole del Mediterraneo, per produrre progetti originali in buona parte legati anche alla cultura della Sardegna. Penso all’opera di Pinuccio Sciola, Maria Lai, Rosanna Rossi e quindi a linguaggi che si incontrano.

Quindi per tre anni Berchidda diventerà un grande laboratorio che porterà gente, e farà lavorare il paese. Poi tutti questi concerti che svilupperemo saranno portati in giro per Sardegna e Italia e in giro per le isole che coinvolgeremo: Sicilia, Corsica, Lampedusa, Isola d’Elba, Baleari, Malta, Cipro e Creta.

Questo è il futuro luminoso del festival nel senso che ha generato una complessa riflessione su quello che un paese dovrebbe attingere da una manifestazione del genere, che deve lasciare una scia ben più importante.

Questa è anche la giusta risposta a quella politica che pensa che la cultura sia un fatto assolutamente irrilevante».

Leggi anche:

TIME IN JAZZ 2022: IL PROGRAMMA DI VENERDÌ 12 AGOSTO

QUANDO A TIME IN JAZZ È TEMPO DELLE GENERAZIONI FUTURE

TOSCA A TIME IN JAZZ: ABBIAMO BISOGNO DI AMORE

TIME IN JAZZ 2022, IL PROGRAMMA DI GIOVEDÌ 11 AGOSTO

TIME IN JAZZ 2022, LE DONNE NELLA QUARTA GIORNATA

Share via
Copy link
Powered by Social Snap