Carnevali della tradizione, a Samugheo Su Mamutzone e S’Urtzu

(Foto di Manuela Seu)

Come da tradizione, in questo periodo dell’anno, anche il piccolo centro di Samugheo, iniziava i preparativi per la prima uscita delle sue maschere tipiche: il 16, 17 e 18 gennaio, quindi durante i festeggiamenti in onore di Sant’Antonio Abate. Con l’entrata in vigore del decreto di legge dello scorso dicembre che proroga lo stato emergenziale per la pandemia, tutte le manifestazioni all’aperto, inclusa la prima uscita delle maschere di Samugheo, resteranno sospese. Non resta che ripercorrere le caratteristiche usanze carnevalesche.

Con il viso cupo di carbone per nascondere le sembianze umane, l’elemento che contraddistingue su Mamutzone di Samugheo dalle diverse maschere barbaricine è il suo copricapo: un recipiente di sughero rivestito all’esterno da lana di capra, “su casiddu”, coronato all’estremità da lunghe e affusolate corna caprine oppure bovine. Inseriti all’interno del ricchissimo repertorio del carnevale tradizionale sardo, i Mamutzones di Samugheo indossano pantaloni di fustagno o velluto nero e sul dorso pesanti pelli di capra. Gambali di cuoio ricoperti da pelle di capra, e annodati stretti in vita, portano campaneddas e trinitos, i caratteristici campanacci di ottone o bronzo.

Durante la sfilata, i Mamutzones scendono in piazza richiamati dal suono di un corno, procedono saltellando e invadono le vie del paese in una danza disordinata e chiassosa ma altrettanto coinvolgente. Il suono e l’eco dei campanacci anticipa la loro vicinanza. In una danza apparentemente confusa e disordinata, mimano i comportamenti delle capre in amore, lottano, si incornano e combattono simbolicamente tra di loro. Tra una via e l’altra del paese, poggiano a terra il loro copricapi in sughero e danzano attorno.

Nel frattempo procede lento e zoppicante S’Urtzu, la vittima sacrificale della rappresentazione. Porta sul petto pelli di caprone nero e pesanti campanacci, sul suo cammino sceglie fra il pubblico una giovane donna con cui simulare l’accoppiamento. Nasconde sotto i suoi indumenti una vescica di sangue di animale e acqua, contenuto che verrà in seguito riversato a terra in segno propiziatorio. È la maschera che all’interno del carnevale di Samugheo, rappresenta l’amore e la passione.

Dopo esser stato ripetutamente colpito e percosso da S’Omadore si getta a terra, si rianima, si rialza e muggisce in segno di dolore e sacrificio. S’Omadore con il viso nero ricoperto di fuliggine, all’interno del carnevale di Samugheo, come anche nella cultura agro-pastorale, rappresenta la figura predominante: il Pastore. Porta un lungo pastrano nero con il cappuccio che copre fino al naso e indossa scarponi da campagna. In mano tiene sa soga (la fune), un bastone, la catena e il pungolo per guidare e picchiare s’Urtzu; lo colpirà pesantemente mirando alla sua vescica.

S’Urtzu cadrà ancora una volta a terra accerchiato da Mamutzones, a loro volta impegnati in una folle danza, muggendo e avventandosi sopra gli spettatori che divengono così, parte fondamentale della rappresentazione. Il sangue e l’acqua contenuta all’interno della vescica, si riversano tra le vie del paese come simbolo di una terra fertile, un buon auspicio per sperare in abbondanti raccolti.

Manuela Seu

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