L’Italia non ha mai davvero affrontato il proprio passato coloniale, perché, in fondo, gli italiani “sono brava gente”. Eppure, la storia ci racconta una realtà ben diversa. Per esplorare questo tema complesso, trascurato e carico di pregiudizi, ho intervistato Valeria Deplano, che insegna Storia dell’Europa contemporanea e Storia del mondo contemporaneo presso l’Università degli Studi di Cagliari e si occupa di storia del colonialismo e della decolonizzazione in Italia e in Europa; storia delle migrazioni in età contemporanea e storia del fascismo. Se non l’avete ancora fatto, vi invitiamo a leggere il primo articolo, pubblicato qualche giorno fa, e a proseguire con questo nuovo articolo.
Valeria Deplano, perché il colonialismo viene affiancato alla modernità?
Questo è un tema centrale che, ancora una volta, attraversa sia il periodo liberale che quello fascista: la premessa è che la modernità, intesa non in senso di superamento delle tradizioni e delle abitudini sociali, ma come capacità di possedere e utilizzare i prodotti delle più aggiornate tecnologie, nella prima metà del Novecento è una caratteristica su cui l’Europa tutta basa la propria autorappresentazione come culla della civiltà più avanzata. Tale autorappresentazione è tanto più centrale e utile nel momento in cui i paesi europei si lanciano nella spartizione dell’Africa: si occupano i territori altrui e se ne sottomettono le popolazioni in virtù di un diritto naturale dato dalla propria capacità di produrre e utilizzare tecnologie cui gli africani non hanno accesso per una presunta, altrettanto naturale, inferiorità che veniva continuamente ribadita e affermata.
Nella versione che ora definiremo più “buonista” di questo discorso, la superiorità tecnologica dei colonizzatori viene presentata come occasione per il miglioramento della vita dei colonizzati: è quello che Kipling definiva “il fardello dell’uomo bianco”, obbligato dalle circostanze a farsi carico del benessere delle popolazioni africane e asiatiche. La modernità è quindi un asse portante del discorso finalizzato a legittimare il colonialismo. Ma lo stesso concetto aveva altre due implicazioni “coloniali”: quello, concreto e realista, per cui la produzione industriale che stava alla base dell’investimento tecnologico aveva bisogno di materie prime, che solo un sistema imperialista di spartizione del mondo in funzione dell’Europa poteva garantire. L’altro, più propagandistico, che vedeva nelle colonie un terreno perfetto per fare mostra di tale modernità in una chiave ancora una volta di supporto del sentimento di appartenenza nazionale: le guerre coloniali consentivano l’uso e lo sfoggio delle nuove tecnologie (ad esempio per l’Italia la guerra di Libia fu la prima occasione per usare l’aviazione, sebbene il suo utilizzo non fu determinante per l’esito del conflitto). Ma anche la fase post-bellica, che coincideva con una aumentata mobilità di persone e beni, con la costruzione di infrastrutture e insediamenti urbani, dava occasione per usare e mostrare tecnologie e mezzi di trasporto moderni, capaci di “domare” gli impervi territori africani. Non a caso la Fiat negli anni Trenta usò lo scenario coloniale per promuovere alcuni suoi modelli.
Come viene utilizzato il colonialismo dal fascismo? Come cambia il colonialismo in seguito della guerra di Etiopia?
Quando Mussolini sale al potere eredita non solo il possesso di Libia, Eritrea e Somalia, ma anche un pensiero razzista sotteso ai progetti di occupazione, e attorno al quale erano già strutturate le società delle colonie. Eredita anche dei progetti che vedono nei possedimenti africani una “valvola di sfogo” per gli emigranti, che invece che andare all’estero ed essere trattati da stranieri avrebbero potuto restare in una situazione di privilegio e tutela spostandosi in territori controllati dallo Stato italiano. Tutto questo viene sviluppato per le esigenze del regime negli anni Venti e nei primi anni Trenta, ma l’Etiopia segna un salto di qualità. Il Corno d’Africa, ma anche la Libia, sono chiamati dal fascismo a diventare il crogiuolo della nuova società fascista: è a questo punto che il numero degli italiani aumenta notevolmente in quei luoghi, anche se non raggiungerà mai le cifre sbandierate dal regime. Per la prima volta arrivano in misura consistente anche le donne italiane, segno proprio del fatto che si pensa alla creazione di una società stabile di italiani d’Africa.
L’arrivo delle donne è legato a doppio filo, inoltre, con una nuova concezione della stessa idea di italianità, che ora passa per il sangue: stabilizzare le famiglie serve a evitare che gli uomini italiani instaurino relazioni sessuali e affettive con le donne africane. Proprio il discorso ufficiale attorno al rapporto con le donne africane può essere preso come cartina di tornasole del cambiamento successivo alla proclamazione dell’impero: prima le donne nere erano considerate un’attrattiva per gli uomini italiani mandati in colonia. Venivano rappresentate sempre svestite, a sottolinearne la presunta disponibilità, ma anche l’animalità – quindi la distanza dall’umanità, in quanto nere – prede del colonizzatore italiano che era legittimato ad appropriarsene. Se nella pratica gli uomini italiani continueranno ad agire come prima, dopo la guerra d’Etiopia e la proclamazione dell’impero la propaganda di regime si impegna a sminare il discorso precedente, descrivendo le donne africane come sporche e ributtanti, nonché pericolose per la conservazione della “razza” italiana. È il segno, questo, del passaggio da una concezione culturale del razzismo ad una concezione biologica, legata al sangue.
Ringraziamo Valeria Deplano per la sua disponibilità e vi diamo appuntamento tra qualche giorno per la terza parte dell’intervista.
