Eccoci giunti all’ultimo appuntamento in compagnia con l’estetica e con Luca Vargiu, studioso di filosofia estetica e docente nell’Università degli Studi di Cagliari.
Qualora non l’aveste fatto, vi invitiamo a leggere i tre articoli precedenti e a proseguire con questo. Sono sentieri interrotti di filosofia…
Luca Vargiu, Il tuo corso monografico di qualche anno fa all’Università trattava di Iconologia, iconica, iconoclash: teorie contemporanee dell’immagine. Ci spieghi di cosa si tratta?
Ho proposto un corso monografico sulle teorie contemporanee dell’immagine. L’immagine in questi ultimi anni è divenuto un tema centrale in molte discipline: si parla di un iconic turn o di una svolta iconica, cioè di una svolta verso l’immagine. Chiaramente l’estetica non può non fare la sua parte. Questo corso ha affrontato anche questioni di stretta attualità, se pensiamo a quello che è successo negli anni scorsi, con l’abbattimento o lo sfregio di varie statue in diversi paesi di personaggi ritenuti schiavisti e razzisti, e i relativi dibattiti in merito. Il mio compito e anche la mia posizione deontologica non è stata quella di prendere posizione pro o contro, ma di fornire qualche elemento in più per poter comprendere quello che stava succedendo e che, a diverse ondate, è capitato molto spesso nella storia.
Uno dei casi che gli autori che abbiamo letto hanno preso in considerazione – sono quasi tutti saggi scritti tra il 2000 e il 2010 – riguarda Buddha di Bamiyan distrutti dai talebani in Afghanistan; un altro riguarda l’abbattimento della statua di Saddam Hussein alla caduta del suo regime. Ma poco prima, con la dissoluzione dell’URSS e il crollo del muro di Berlino, abbiamo assistito, in tutti i paesi dell’ex blocco sovietico, all’abbattimento di tutte, o quasi tutte, le statue dei vari uomini politici russi e locali. Goodbye Lenin ce lo ricordiamo un po’ tutti: la famosa immagine icastica nella statua di Lenin che viene portata via in elicottero. Uno dei luoghi da vedere a questo riguardo è il parchetto adiacente al museo estone di storia, poco fuori Tallinn, in cui sono state collocate tutte le statue di leader dell’epoca sovietica prima dislocate nelle varie vie e piazze della città. Fa un certo effetto vedere tante effigi di Lenin, Stalin e dei politici locali tutte insieme e ammassate in uno spazio ristretto.
In genere, nel dibattito sviluppatosi negli anni scorsi sui grandi giornali, sui settimanali, sui social sono stati soprattutto gli storici a intervenire, mettendo in luce il significato storico o del gesto iconoclastico o della statua o di entrambi e, volta per volta, prendendo posizione in una direzione o nell’altra. Il monumento, comunque, è sempre un oggetto complesso e non un semplice documento storico, per cui coinvolge più saperi disciplinari e più punti di vista che si richiamano ai diversi saperi. Ragionare sui monumenti anche in termini di immagine, di arte, di simbolo, significa richiamare anche le teorie dell’immagine o gli studi di cultura visuale e anche l’estetica. È importante dare un contributo: tanto nel dibattito, quanto a livello didattico, è sempre importante sottolineare che tra le voci in capitolo c’è anche quella dell’estetica.
Mi piace molto questo approccio dei punti a favore o punti contro, ci puoi dire quali sono?
A mio avviso, è preferibile non fare generalizzazioni, ma esaminare volta per volta il caso specifico. Anche sul piano storico e politico, del resto, casi come la statua di Montanelli a Milano, la statua di Carlo Felice a Cagliari o quella di Hume a Edimburgo richiedono considerazioni diverse. È vero che da un punto di vista filosofico possiamo individuare questioni generali, però poi queste vanno declinate nelle diverse situazioni. Sul piano dell’oggetto, per esempio, possiamo chiederci che cosa intendiamo per monumento, quali implicazioni ha questo concetto: c’è il punto di vista retrospettivo della memoria, della commemorazione di una persona importante, ma c’è anche il punto di vista prospettivo, cioè rivolto al futuro, perché questa persona importante deve fungere da esempio per le prossime generazioni, da monito (“monumento” viene da “monere”). Nel momento in cui tu erigi un memoriale, in senso retrospettivo e prospettivo, si intende anche offrire un simbolo in cui una determinata comunità può riconoscersi e coagularsi, sia che questa comunità sia già effettivamente esistente, sia che la si voglia creare o cementare proprio anche attraverso il monumento. Poi magari si scopre che quella persona celebrata era un disgraziato o quantomeno un personaggio controverso, e allora è ancora il “sentire comune” che decide di eliminare la statua e può decidere di buttarla giù: è il gesto iconoclasta, in questo caso, a essere simbolico di una comunità. Nelle riflessioni che si fanno, si deve anche tener conto, quindi, del possibile cambio di considerazione che quella statua gode all’interno della società di riferimento.
E se considerassimo la statua come documento o opera d’arte?
Certo, nello stesso tempo, un monumento è anche un documento, perché con l’erezione di una statua viene documentato che in un certo momento una certa persona o un certo avvenimento hanno avuto così tanta importanza che si è deciso di ricordarli in questo modo. Anche di chi abbatte statue e distrugge immagini può essere fatta una statua: a Neuchâtel c’è il monumento a un teologo iconoclasta dell’epoca della Riforma protestante, Guillaume Faurel.
La statua, inoltre, può essere o non può essere un’opera d’arte e anche questa è una questione su cui riflettere, perché il concetto di opera d’arte ha sempre una connotazione valutativa, implica un giudizio di valore. Il discorso non si esaurisce certo con queste considerazioni e sarebbe davvero meritevole di uno sviluppo polifonico e multidisciplinare. Io stesso ho bisogno di pensarci in maniera più approfondita… Per esempio, uno degli autori che abbiamo trattato, Hans Belting, sostiene che, siccome il monumento è un genere d’immagine anacronistico, legato al passato, sarebbe anacronistico anche il gesto di abbatterlo. C’è del vero in questo: lo sapeva bene Nivola, che a Nuoro, in piazza Satta, ha realizzato un monumento del tutto anti-monumentale. E però, non è l’immagine come tale a essere anacronistica in un senso ben più ricco, come lo stesso Belting, del resto, sa bene? E allora, questo che cosa comporta?
In ogni caso, come ti ho detto, nel corso di quest’anno tali questioni sono state affrontate solo di passaggio, all’interno di una riflessione più ampia e più variegata sull’immagine. Che cosa intendiamo quando parliamo di immagine? Quale rapporto c’è tra l’immagine e il medium in cui si presenta (il quadro, una parete, lo schermo di un computer, la statua…)? Quale rapporto c’è tra le immagini materiali e le immagini mentali? Quale relazione si instaura tra la dimensione visuale e il linguaggio verbale con cui descriviamo e spieghiamo le immagini?
Cosa significa iconoclash?
L’iconoclash, lo scontro iconico, avviene quando in certe situazioni tu non sai se quell’immagine la stai salvando o la stai invece distruggendo. Ci sono molti casi in cui la questione è ambigua. Il primo caso preso in esame da Bruno Latour, il sociologo ed epistemologo che ha creato questa parola, è il caso dell’incendio della cappella della Sindone a Torino, avvenuto nel 1997. Sono arrivati i vigili del fuoco e hanno preso a martellate la teca dove è custodita la Sindone. Perché l’hanno fatto? Per salvare la Sindone, ma, in realtà se tu non sai che cosa sta succedendo, vedi questi col martello e “oddio la Sindone”, invece la stanno salvando.
Un altro esempio è il caso del restauro: in molti casi è palese, come quando il restauro è mal fatto, come è accaduto in Spagna a quell’Ecce Homo che è stato dato a una persona incompetente e così abbiamo perso l’opera. Poi quell’immagine è divenuta un’icona pop, quindi le cose si sono ulteriormente complicate. Così come sono complicate in altri casi, come quando si espongono nei musei manufatti nati per essere distrutti dopo qualche giorno, come i malanggan della Nuova Irlanda di cui parla ancora Latour.
Questo è stato l’ultimo corso che ho fatto e ben venga fare un corso che ha la sua importanza nella attualità. È sempre importante anche prendere posizione su che cosa ci sta succedendo intorno, chiaramente a ragion veduta.
Oltre il valore estetico della passeggiata c’è qualche altro studio che stai portando avanti?
Da poco sono uscite due volumi un po’ diversi: un libro curato con lo storico dell’arte Alberto Virdis, intitolato Esperienze e interpretazioni della morte tra Medioevo e Rinascimento, che raccoglie vari contributi di storici dell’arte, studiosi di estetica e dintorni, nello spirito di uno scambio reciproco su temi che stanno a cuore a tutti noi. L’altro è un volumetto intitolato Insularità. Una metafora per l’opera d’arte. Quindi anch’io continuo a occuparmi di estetica come filosofia dell’arte, è solo che sono ben consapevole, così come lo siamo tutti, che l’estetica non si esaurisce qui. In quest’ultimo libro analizzo da un punto di vista storico-ricostruttivo una metafora, quella dell’isola, usata da diversi filosofi e storici dell’arte durante il ventesimo secolo per caratterizzare l’opera d’arte: le particolarità di un’isola – l’essere separata dalle altre terre e “incorniciata” dal mare, l’avere contorni ben definiti, il distinguersi per particolari elementi autoctoni come flora e fauna – sono state adattate all’opera d’arte per rivendicarne l’autosufficienza semantica e la conseguente esigenza di essere compresa e interpretata secondo principi a essa immanenti.
La filosofia anche contro la velocità dei nostri tempi
Alla questione si presta bene il tema del camminare. Camminare – l’ha detto bene l’antropologo David le Breton – implica proprio la lentezza: nel contesto della realtà contemporanea, dedita alla fretta, ai ritmi frenetici, è una forma di resistenza. Più in generale: prendersela con calma, lentamente, riscoprire ritmi più blandi e anche più piacevoli, contro la velocità, contro la fretta, contro questa fretta a cui siamo costretti in tutte le attività che facciamo, ha una forte componente estetica, oltre che politica. Il significato della pausa, il dare respiro alle cose, il significato del ritmo lento, del conoscere il tuo ritmo e praticarlo… Occorrerebbe tenerne conto, perché i ritmi non sono uguali per nessuno di noi, eppure vengono standardizzati in tutto ciò che facciamo, non solo nelle catene di montaggio, come dal fordismo in poi sappiamo, ma in ogni nostra attività: tutte le nostre giornate sono regolamentate da quando ci svegliamo a quando andiamo a letto, anzi, è regolamentata anche l’ora in cui ci svegliamo. Invece sarebbe meglio che ognuno si potesse svegliare all’ora dei suoi bioritmi.
Ecco perché da un lato ha senso una somaestetica, ed ecco perché, dall’altro lato, tornando a ciò di cui si occupa l’estetica quotidiana, attribuiamo senso alle piccole auto-coccole quotidiane, come dicevamo prima: vestire bene, perché lo facciamo? Perché vogliamo stare bene. Ci prepariamo qualcosa di buono: una tisana, la colazione, il pranzo, lo spuntino di mezzanotte, perché fa parte del voler cercare il piacevole, il bello, il benessere, inteso in senso vasto.
La filosofia ha ancora tanto da dirci. È importante studiare filosofia, anche iscriversi in filosofia.
Beh sì. Non so se ti ricordi, nei primi anni Novanta si pensava di introdurre la filosofia in tutte le scuole superiori, ne aveva parlato Enrico Berti in una conferenza al Liceo Dettori di Cagliari. È un’idea apprezzabile, a conferma che la filosofia in genere davvero sarebbe utile in tutti i corsi, in tutte le scuole. Ma ancora, ti ricorderai che, più o meno negli stessi anni o leggermente dopo, ci fu il boom della consulenza filosofica, che, al di là del fenomeno di moda, intendeva anch’essa riprendere un’idea di filosofia come “arte di vivere”, e quindi come pratica capace di riguardare la vita di ognuno. In parte legato a essa, e in parte no, ci sono state, e continuano a esserci, tutte le esperienze di filosofia per bambini o coi bambini, a volte davvero interessanti…
In ogni caso, tornando alla formazione, sarebbe forse già un buon risultato vedere la filosofia disseminata nei vari corsi di laurea universitari, ognuno secondo la propria peculiarità. Ci sono già corsi di etica e bioetica in medicina, corsi di epistemologia nelle facoltà scientifiche… Per rimanere all’estetica, non sarebbe male che tutti coloro che all’università sono iscritti nei corsi umanistici in senso lato, considerando anche architettura (ma c’è anche chi ha pensato a un’estetica del diritto, per esempio), prevedessero, anche soltanto tra gli esami opzionali, estetica.
Se, per tornare a Tatarkiewicz, chi studia estetica deve tener conto di tutti coloro che si sono occupati di estetica, da qualsiasi ambito provengano, ciò vuol dire che il pluralismo e la polifonia sono già insiti nella materia. E allora, che senso ha che le cose ce le raccontiamo tra di noi?!
Non raccontarci le cose tra noi e portare l’estetica fuori delle aule universitarie è stata un po’ la logica di questa intervista. Ringrazio Luca Vargiu per la disponibilità e per aver affrontato tutti i temi con grande umanità e generosità.
Sei siete curiosi e volete approfondire le tematiche estetiche, cliccate sui titoli dei libri e troverete tutte le informazioni sui testi appena pubblicati da Luca Vargiu:
Esperienze e interpretazioni della morte tra Medioevo e Rinascimento.
Insularità. Una metafora per l’opera d’arte
http://mimesisedizioni.it/libri/filosofia/il-caffe-dei-filosofi/insularita.html