La filosofia è meraviglia, nasce dallo sguardo fanciullesco e colmo di stupore. La ricerca, che non trova mai appagamento e mai si conclude, fiorisce proprio da quello sguardo sempre pronto alla scoperta e mai sazio.
L’importanza che la filosofia riveste nella nostra vita -il pensiero, il giudizio critico, l’incontro e il confronto continuo con l’altro – non è riassumibile in poche parole. Nonostante ciò, spesso capita che venga considerata come una disciplina troppo elitaria o poco utile. Questa logica non ci piace affatto. La filosofia -e l’estetica- ha tanto da dire ai nostri giorni e alle nostre vite. Di filosofia abbiamo bisogno, di bellezza, di sapere, di confronto.
Con Luca Vargiu, studioso di estetica e docente nell’Università degli Studi di Cagliari, abbiamo deciso di inoltrarci nei sentieri interrotti della filosofia e nelle sue radure. Questa lunga e intensa intervista -divisa in due parti per l’importanza e la varietà dei temi trattati- è una conversazione sull’estetica e sulla vita. Tra il serio e il faceto, come del resto si presenta la vita stessa, abbiamo affrontato temi importanti e di stringente attualità, con l’immancabile Kant a ricordarci quanto siano importanti i nostri giudizi.
Tra camminate filosofiche, filosofia dell’arte e sentimento, paesaggi e atmosfere, Luca è stato interlocutore puntuale, preciso e sempre sagace.
Prima di iniziare questa passeggiata estetica, create la giusta atmosfera: accomodatevi su una comoda poltrona, luce calda, un gatto che ronfa beato sulla vostra pancia, del cioccolato, un buon bicchiere di vino e lasciatevi guidare nel mondo dell’estetica. Buona lettura!
Luca, per parlare di filosofia estetica, potremmo partire da un equivoco. È possibile che un chirurgo odontoiatra sia un tuo collega?
È un mio collega e non è un mio collega: c’è un equivoco curioso. È capitato a tutti i docenti di estetica, sino a qualche anno fa, di ricevere mensilmente una newsletter di un odontoiatra esperto in ricostruzioni estetiche della dentatura, che, convinto di scrivere ai suoi colleghi, ci invitava ai suoi corsi di formazione e ai convegni, con tanto di fotografie che illustravano i vari metodi. Insomma, ci teneva informati sulla sua attività.
Allora, tua collega potrebbe essere un’estetista?
Capitano anche equivoci con la chirurgia estetica. Ci sono arrivati inviti per andare a convegni in giro per il mondo, a Dubai, in Thailandia… E veniva sempre voglia di dire: “Dai che andiamo, anche se non ci facciamo nulla!” È diventata famosa la lettera di un’estetista arrivata a Roberto Diodato, docente di estetica dell’Università Cattolica di Milano, che lui stesso ha pubblicato in un suo articolo del 2010. Un’estetista straniera voleva venire a lavorare Italia e quindi ha chiesto a un professore di estetica (filosofica) come potersi inserire nell’ambito lavorativo milanese.
C’è insomma un malinteso tra l’estetica dei filosofi e l’estetica degli estetisti. Qualcuno che ha senso del marketing ci ha giocato: a Reggio Emilia c’è un centro estetico Hegel; a Madrid c’è un centro estetico Ortega y Gasset. É curioso vedere l’estetica di Hegel, di Ortega y Gasset che finisce tra massaggi e pedicure.
All’inizio delle lezioni, per introdurre in maniera divertente l’argomento, gioco un po’ con queste cose, mostro il sito del centro estetico Hegel, gioco a eliminare i malintesi (o a riflettere su di essi).
Lasciamo il malinteso, di cosa si occupa l’estetica canonica?
Possiamo anche partire giocando con quel malinteso: noi non siamo estetisti, ma se in entrambi i casi si usa la parola “estetica”, forse qualche legame c’è e si tratta anche di capirlo.
È difficile parlare di estetica canonica. L’estetica è un ramo della filosofia. Emilio Garroni concepiva l’estetica come una «filosofia non speciale», perché non è una disciplina settoriale, non si occupa solo di temi e oggetti specifici, come per esempio fanno la filosofia del diritto o la filosofia della religione. Potremmo parlare di un’estetica canonica per l’estetica dell’Ottocento e del Novecento, perché lungo questi due secoli essa è stata concepita pressoché esclusivamente come filosofia dell’arte.
Quindi estetica come filosofia dell’arte e come esperienza privilegiata?
Tradizionalmente, ancora oggi in alcuni manuali si trova questa dicitura: l’estetica è quel ramo della filosofia che si occupa dell’arte e del bello. Fino alla nostra generazione questo è stato il mainstream dell’estetica, quindi, se vogliamo dir così, il suo canone.
Oggi le cose si sono complicate, in quanto si è recuperata la ricchezza dell’etimologia stessa della parola. Estetica viene da aisthesis, cioè “percezione, sensazione”, quindi riguarda tutto ciò di cui si fa esperienza attraverso i sensi, anzi, ciò che ha a che fare con la dimensione del sentire in senso lato, quindi anche in relazione a tutto l’aspetto empatico sentimentale, emotivo.
Baumgarten nel Settecento ha coniato il termine proprio seguendo questa etimologia. Da una quarantina d’anni, più o meno, l’estetica si sta ampliando in svariate direzioni, facendo riferimento a tutto il vasto spettro dell’esperienza sensibile e avendo a che fare con la sensazione e il sentimento.
Dobbiamo sempre fare sempre i conti con Kant?
Chi è non fa i conti con Kant?! Kant ha parlato di estetica in primo luogo nella prima Critica (la Critica della ragion pura), intendendola come teoria della sensibilità: teoria che fa riferimento alla nostra conoscenza sensibile e a quelle forme che la racchiudono, cioè lo spazio e il tempo. Che c’entrano lo spazio e il tempo? Faccio un esempio, di cui mi assumo la responsabilità (Kant non c’entra) e che usavo spesso quando insegnavo nelle scuole superiori. Quando si assumono sostanze psicotrope come droghe o alcool, viene sfasata la cognizione dello spazio e del tempo: non capiamo più quanto tempo sta passando, non ci rendiamo più conto delle distanze, non sappiamo più regolare il vicino e il lontano. Nell’alterazione della nostra percezione sensoriale si modificano subito spazio e tempo. In modo empirico e negativo, queste esperienze danno ragione a Kant!
Quindi il nostro Kant può essere considerato il padre dell’estetica?
Secondo la visione tradizionale della storiografia estetica, a partire dal primo storiografo della disciplina, l’austriaco Robert Zimmermann a metà Ottocento, Kant è stato considerato per molto tempo il padre dell’estetica. Il riferimento, in questo caso, non è alla prima Critica, ma alla terza: la Critica della facoltà di giudizio. È però curioso notare che il sostantivo “estetica” nella terza Critica è presente una volta sola e quasi accidentalmente. Autorevoli studiosi – come Gadamer e lo stesso Garroni – hanno più volte insistito sul fatto che in definitiva Kant, nella terza Critica, non intendeva primariamente fondare un’estetica, ma approfondire il “funzionamento” dei nostri giudizi – intendendo per “giudizio” l’unione di soggetto e predicato. Kant, fra le altre cose, ha trovato una modalità specifica di “funzionamento” o di organizzazione del giudizio nel giudizio estetico: quel giudizio che noi facciamo quando diciamo “questo è bello” o “questo mi piace”. Di giudizi estetici è piena la nostra esperienza quotidiana: “Ti è piaciuto questo film?” “Questo mi piace!” “È bellissimo”.
Ogniqualvolta la riflessione estetico-epistemologica ha dovuto riflettere su questa modalità del giudizio, Kant è sempre imprescindibile. Kant è sempre nei nostri cuori, è uno dei nostri!
A lezione faccio vedere un disegno di Friedrich Hagermann che ritrae un Kant già anziano (siamo nel 1801), che si prepara la senape in casa. Lui è tedesco, anzi prussiano, in quelle latitudini la senape piace molto. Ecco che Kant esercita lui stesso il giudizio di gusto: “Che buona la senape!” Ecco il giudizio estetico!
Ogni nostra esperienza ha a che fare con la sfera estetica, ogni comportamento è intriso di esteticità.
Come stavamo dicendo prima, l’estetica oggi riprende il suggerimento che ci proviene dall’etimologia della parola, rivendicando la ricchezza del concetto di aisthesis e facendo quindi riferimento a tutta la sfera esperienziale. Ogni nostra esperienza ha a che fare in una certa misura con l’estetica o con una componente estetica, ma non necessariamente col bello.
È vero che da più parti oggi si parla del bisogno di bellezza nella nostra vita di tutti i giorni, si parla della sua importanza e della sua necessità. Però, secondo diversi filosofi, può essere interessante un’indagine di tutto ciò che riguarda il nostro sentire. Ciò investe quindi non solo la questione del bello, ma tutta la vasta sfera dell’“estetico” (sostantivando l’aggettivo), vale a dire, tutto l’ambito che comprende il bello, il brutto, ma anche ciò che nel Settecento si chiamava il sublime – ossia le esperienze più forti o più intense rispetto a quella del bello – e ancora il grazioso, l’elegante, il carino, il brutto, l’orrido, il grottesco, il disgustoso…
Che cosa sono le atmosfere?
Negli ultimi decenni, uno dei campi di studio che si sta affermando, riprendendo alcuni suggerimenti di certe frange della fenomenologia, è il campo relativo alla questione delle atmosfere. È stato introdotto da uno studioso tedesco, Gernot Böhme, e in Italia se ne occupa Tonino Griffero, che insegna a Roma 2 (Tor Vergata). Anni fa c’era il famoso brandy che crea un’atmosfera. Pensiamo proprio a quella pubblicità: lo speaker ha una voce calda e profonda che ti introduce a un clima raccolto, coinvolgente, intimo, confermato dai colori caldi che dominano la gamma cromatica, e quindi la scena, e che si concentrano nel caminetto che brucia, mentre in sottofondo si sente la Romanza in fa maggiore op. 50 di Beethoven. Le persone col brandy si inseriscono in questo clima, in questa atmosfera, appunto.
Possiamo intendere le atmosfere come gli stati affettivi che sono sempre implicati nelle nostre esperienze come loro condizioni contestuali. Böhme le definisce come «qualcosa che media i fatti oggettivi dell’ambiente con il nostro sentimento soggettivo nei loro confronti». Quindi, tornando alla pubblicità, il brandy non basta a creare un’atmosfera, perché occorre anche la nostra disposizione, però aiuta, cioè può aiutarci anche a cambiare il modo in cui ci sentiamo.
Alcuni architetti – penso in primo luogo allo svizzero Peter Zumthor – si occupano di atmosfere. Chi progetta e costruisce deve anche farlo in modo che ci si trovi bene, a proprio agio, negli ambienti che devono essere realizzati. L’atmosfera è il trovarsi bene o male in un determinato ambiente. Il sole che splende ci dispone in un certo modo, la pioggia battente ci dispone in tutt’altro modo, un buon odore ci fa un certo effetto, il tanfo di un locale malsano tutto un altro…
Per creare le atmosfere si lavora in equipe, anche gli studiosi di estetica sono coinvolti?
C’è sempre una forte componente filosofica nell’architettura e nell’urbanistica, basti pensare a tutta la storia dell’architettura andando indietro sino a Vitruvio, Alberti, Palladio… Anzi, a partire da Ippodamo di Mileto nel V secolo a.C.! E spesso questa componente filosofica è rivendicata dagli stessi architetti. Può capitare di lavorare in equipe, in campi come, appunto, l’architettura, l’urbanistica, la progettazione paesaggistica, o il design, che ha a che fare con le atmosfere e con l’estetica del quotidiano.
Con Luca Vargiu vi diamo appuntamento tra qualche giorno con la seconda patte dell’intervista.