Riprendiamo la nostra conversazione filosofica con Luca Vargiu, studioso di filosofia estetica e docente nell’Università degli Studi di Cagliari. 

Per godere appieno di questa passeggiata estetica, vi invito a creare l’atmosfera perfetta: sedetevi comodamente su una poltrona avvolti da una luce calda, con un gatto che ronfa placidamente sulla vostra pancia, qualche pezzetto di cioccolato a portata di mano e un buon bicchiere di vino. Lasciatevi dunque condurre nel mondo affascinante dell’estetica, dove ogni riflessione è un invito a riscoprire il bello nascosto nel quotidiano. Buona lettura!

Luca, si parla tanto di Pop philosophy, di cosa si tratta?

Pop philosophy: si usa questa espressione inglese perché questo filone è nato sostanzialmente negli Stati Uniti. Vuole essere pop non nel senso, senz’altro più ricco e interessante, in cui la intendeva Gilles Deleuze, cioè nel senso di una filosofia che, giovandosi dell’elettricità e dell’intensità della cultura pop, cessasse di essere una disciplina chiusa, settoriale, e divenisse anzi anti-professorale, potenzialmente anarchica e in grado di aprirsi a nuove dimensioni. Molto più semplicemente, invece, la pop philosophy contemporanea vuole mischiare la filosofia – se vuoi anche banalizzarla, trivializzarla, c’è sempre anche un po’ questo rischio – con la cultura di massa. 

Questo genere – se così lo si può chiamare – aveva un buon successo 20-25 anni fa. Oggi si è un po’ spento, anche se, per esempio, a Marsiglia ogni anno continua a svolgersi in autunno un festival: la “Semaine de la pop philosophie”.

Alcuni titoli sono stati tradotti anche in italiano o sono stati scritti direttamente da autori italiani e riguardano fenomeni come il rock: i Led Zeppelin e la filosofia, i Metallica e la filosofia, i Kiss e la filosofia…, oppure le varie serie televisive e cinematografiche – James Bond, Harry Potter, Doctor Who, Jurassic Park, Matrix, Orange is the new Black, The Walking Dead, Dexter, Buffy, Twin Peaks – i cartoni animati e i fumetti – i Simpson, South Park, Peanuts, Peppa Pig – oppure ancora fenomeni di costume e della nostra società di massa, o anche sport: Facebook e la filosofia, l’iPod e la filosofia, il calcio e la filosofia.

Per molti è un po’ un divertissement, un gioco: provare a vedere cosa avrebbero da dire Nietzsche o Platone e Aristotele su Maradona, su Messi, su Bart Simpson o su Sting. Può essere visto anche in senso contrario, come un aggancio a temi filosofici a partire dall’esperienza quotidiana, per trovare motivi e problemi che sono stati approfonditi dai filosofi: in questo senso può avere uno scopo didattico e alcuni saggi sono davvero ben fatti. Nei casi migliori, possono essere letture piacevoli da cui si impara qualcosa. E i nomi di un certo rilievo non mancano: Noël Carroll, noto studioso statunitense di estetica, ha partecipato al volume sui Monty Python, Jeff Malpas, filosofo australiano che si occupa di Heidegger, di spazio e di paesaggio, ha partecipato al volume sugli U2. In Italia il filosofo della scienza Giulio Giorello, recentemente scomparso, si è occupato di fumetti, da Paperino a Tex.

Una novità tutta americana? Gli europei non hanno da dire nulla? 

Nominavo adesso Giorello, ma anche il libro su Peppa Pig è stato scritto da un italiano, e anche diversi altri. In ogni caso, se è vero che le principali collane sono americane, è anche vero che ai vari volumi partecipano filosofi di tutto il mondo, dall’Asia al Sudamerica, all’Europa. A volerne tracciare la genealogia, poi, tutto sommato non si tratta di una novità. Già nel Settecento si parlava di certi filosofi tedeschi (Christian Garve e altri) come di “filosofi popolari”, perché i loro scritti erano caratterizzati da un taglio più divulgativo e meno profondo: nel parlare di “filosofi popolari” c’era anche spesso una connotazione negativa, quindi. In Italia, nello stesso secolo, Francesco Algarotti ha scritto Il Newtonianismo per le dame: al netto di tutte le questioni di genere, è vero che le dame tenevano i salotti culturali, ma venivano anche viste come dedite soltanto alle frivolezze e alle cose superficiali. Il libro era il tentativo di spiegare in modo semplice e mondano la filosofia di Newton: tra un trucco e un parrucco, tra un salotto e una toilette, cerchiamo di capire Newton. È una letteratura divulgativa nata per attrarre un popolo un pochino più vasto. Un pochino: certo non era per il popolo a cui dare brioches se mancava il pane.

Ti sei occupato anche di calcio. Anche il calcio rientra nell’ambito estetico?

Mi sono occupato di calcio quando ho avuto l’opportunità di collaborare al volume Soccer and Philosophy, edito all’interno di una collana specializzata proprio in pop philosophy. Era stato pubblicato in occasione dei mondiali del Sudafrica, che tutti si ricordano per almeno tre cose. La prima ha un’importanza anche storica, le altre due hanno un valore più cronachistico. La prima, di portata storica, è l’ultima apparizione in pubblico di Nelson Mandela. Le altre due, più aneddotiche, sono le vuvuzelas, con il loro suono assordante, e il polpo Paul, che faceva i pronostici e ci azzeccava in pieno. Dimenticavo: Shakira che canta Waka Waka dove la lasciamo?

Ma torniamo al libro. Il curatore, che tra l’altro è un ex calciatore e insegna filosofia negli Stati Uniti, si chiama Ted Richards e per l’occasione aveva messo su una squadra di studiosi di filosofia provenienti da tutto il mondo: un vero e proprio campionato mondiale anche da questo punto di vista. Io ho partecipato con un saggio intitolato Kant al Maracanã, nel quale ho provato a rapportare il problema del giudizio estetico alle situazioni che si possono verificare anzitutto dentro lo stadio, sia dal punto di vista dello spettatore che va lì a godersi il gioco, sia del tifoso che invece ci tiene che la sua squadra vinca, oppure dal punto di vista dello scommettitore, che vuole che vinca la squadra sulla quale ha puntato. Dopodiché mi sono spostato sul campo di gioco, per vedere come vivono la questione i giocatori, l’arbitro e i suoi collaboratori mentre stanno giocando. Infine, termino con alcune considerazioni sul dopo partita, relativamente a come si esercita il giudizio estetico quando si riguarda la partita o i suoi momenti salienti in TV o sul web. Poco tempo dopo, ho riproposto gli stessi argomenti in occasione di uno degli “aperitivi culturali” dell’associazione culturale Itzokor, di Cagliari, intitolando l’appuntamento Kant al Sant’Elia. Se ci pensi, tutto torna: Scopigno, l’allenatore del Cagliari dello scudetto, era soprannominato “il filosofo”.

Ti piace molto giocare con i paradossi.

Sì! Curo un blog didattico che avevo creato quando insegnavo a scuola – sino al 2010 ho insegnato storia e filosofia a San Gavino, sia alle ex magistrali che allo scientifico –, poi ho continuato a usarlo per gli studenti universitari.

Il blog si intitola Più formaggio più vermi… (https://luca1710.wordpress.com/). Il nome rimanda a un paradosso che in origine riguarda il formaggio con i buchi, ma siccome siamo in Sardegna, chi è che fa i buchi? I vermi! Anche il formaggio, ovviamente, mette in gioco il giudizio estetico: si va dal disgustoso al buonissimo. Coinvolge l’esperienza tattile, gustativa, olfattiva: su fragu de su casu marzu è ben noto!

Il paradosso gioca con il sillogismo aristotelico: più formaggio hai più vermi hai, ma se hai più vermi hai meno formaggio, quindi più formaggio hai meno formaggio hai. Ovviamente, la spiegazione c’è, ma qui non la rivelo!

Un altro paradosso con cui ho giocato quando insegnavo a scuola riguarda la creazione di un gruppo su Facebook, che esiste ancora. Intorno al 2008-2009, quando c’è stato, almeno da noi, il primo boom di iscrizioni a Facebook, giocando con un paradosso ben noto fin dall’antichità, avevo creato per i miei studenti il “Gruppo di quelli che non fanno parte di questo gruppo”. E allora chi è che fa parte del gruppo di chi non fa parte di quel gruppo? Perché se fai parte di quel gruppo, non ne fai parte, e allora ti devi cancellare. Ma, se ti cancelli, non fai parte del gruppo, e quindi ti devi iscrivere, e vai avanti così all’infinito… Una mia studentessa di allora – con cui, fra l’altro, sono sempre in contatto – ha commentato: “Non facendo parte del gruppo, mi sento in dovere di iscrivermi subito. Tuttavia, ora vi faccio parte ufficialmente… quindi teoricamente dovrei lasciarlo.  Ma, se lo lasciassi ora, non potrei commentare. Oh cavolo…”

Che ricordo hai della scuola, degli anni in cui insegnavi nelle scuole superiori?

Quello che più mi manca davvero è l’aspetto compartecipativo, di scambio costante giorno dopo giorno soprattutto con gli studenti. Sono stati anni bellissimi, davvero mi manca ancora tantissimo, perché è stata un’esperienza molto feconda e intensa dal punto di vista umano: provare a costruire qualcosa, sentirsi utile per qualcuno. Ho mantenuto molti contatti: ci sentiamo, condividiamo interessi comuni, ci incontriamo e ci vediamo, a volte collaboriamo…

Il punto di vista dei ragazzi ti fa crescere… 

Sì, è proprio così, anche se sembra banale dirlo (ma il filosofo non deve evitare il banale, anzi, deve scandagliarlo). Lo scambio reciproco con gli studenti e con le studentesse è sempre molto formativo.

Un altro tema di cui ti occupi è l’Estetica del camminare. Cosa riguarda?

Tra i miei interessi attuali c’è anche, come ti dicevo prima, la tematica del paesaggio. Sto provando a vedere che senso abbia l’esperienza del camminare in relazione all’esperienza del paesaggio o comunque – come dire? – la portata estetica del camminare in qualsiasi contesto e situazione: in città, in riva al mare, in luoghi ameni o in luoghi degradati… 

Anche qui si parte da lontano e si possono fare nomi importanti: Rousseau, Schiller, Nietzsche, Thoreau… Voglio ricordare un pensatore di fine Settecento, Karl Gottlob Schelle, autore di un volumetto sulla filosofia della passeggiata tradotto anche in italiano: era anche lui un esponente di quella “filosofia popolare” che abbiamo nominato prima parlando della filosofia pop: in questo libriccino si sente l’influenza dell’estetica kantiana, e del resto i due si conoscevano. In questi anni si sono occupati del camminare diversi filosofi e pensatori, artisti, sociologi. È un campo interdisciplinare. Del resto, chi studia estetica sa bene, come ci ha insegnato negli anni Sessanta il filosofo polacco Władysław Tatarkiewicz nella sua Storia dell’estetica, che nello studio e nella pratica di questa disciplina non ci si deve limitare ai filosofi, ma occorre rivolgersi a tutti quelli che a diverso titolo e in diverso modo si sono occupati di estetica, quindi gli artisti, i sociologi, gli antropologi, i critici, chiunque. 

A proposito del camminare, per il momento sono in una fase ancora esplorativa. Sto realizzando una sorta di mappatura per rendermi conto delle diverse posizioni, distinguendo grossomodo due filoni: uno più legato alla fenomenologia del camminare, quindi, se vuoi, all’interpretazione; l’altro più legato a una visione critica, perché attraverso il camminare tu ti dovresti accorgere di una serie di elementi relativi a quello che ti circonda, e questo ti dovrebbe aiutare ad acquisire una coscienza critica.

Quindi, per esempio, tornando a quanto dicevamo prima su questioni come quelle relative alle scorie e alle pale eoliche – ma non dimentichiamoci il rischio di cementificazione sulle coste –, anche il camminare in quei posti ti fa rendere conto di una serie di questioni e ti fa crescere nel tuo giudizio. È possibile pensare e progettare camminate volte all’acquisizione di consapevolezza. È l’attività che porta avanti il gruppo Stalker creato da Francesco Careri, già da un po’ di anni, anzitutto a Roma. In Germania e dintorni troviamo Annemarie e Lucius Burckhardt, moglie e marito, entrambi scomparsi, che si sono mossi tra sociologia, scienza della cultura e arte della performance. Tutte queste persone hanno portato avanti uno sguardo critico attraverso l’uso del passeggiare. I Burckhardt hanno parlato di Promenadologie, una scienza del passeggiare.

Un altro esempio ci è dato dal celebre psicologo Kurt Lewin, che conia il termine “odologia”, usato poi anche da Sartre e da altri. Da giovane è stato soldato nella Prima guerra mondiale e, riflettendo su questa esperienza, ha scritto un breve saggio intitolato Paesaggio di guerra, che, sebbene non parlasse ancora di odologia, tuttavia contiene in nuce i termini principali della questione. Qui Lewin si chiedeva che cosa cambiasse nell’esperienza dello spazio il fatto di trovarsi in pace o in guerra, per esempio l’esperienza di chi si trova lungo la linea del fronte, in trincea o durante un assalto, sapendo che ti possono arrivare le bombe addosso, o di chi invece sa che niente accade perché si è in pace.

Ma non finisce qui! Ci vediamo con Luca Vargiu e con l’estetica tra qualche giorno.