Sei e sette luglio. A Pozzomaggiore si dice che questi giorni facciano parte della settimana più calda dell’estate: sa chida de Santu Antine. Il sole è alto in cielo e scalda come se fosse sua somma prerogativa, ma è anche quel caldo a preparare la festa. Tutti sapremo trovare ristoro, ognuno a suo modo.
San Costantino: l’ardia.
I preparativi animano il Paese, da sempre. Un piacevole movimento che converge nella Chiesa in sa Punta. Il Comitato de Santu Antine, s’oberaju, cadderis e caddos. Tutti. Ognuno ha il suo compito, ognuno è parte di uno dei momenti più importanti per i Pozzomaggioresi.
Tutto è fatto di gesti ripetuti da generazioni: è semplice, è parte dell’educazione e della Comunità, talmente radicato da essere dato per scontato. Fino a quando le restrizioni anti-Covid-19, togliendoci le feste, non ci hanno restituito il valore reale delle cose.
Due anni senza né polvere né scalpitare indomito di cavalli a riempire il nostro chiacchiericcio. Le celebrazioni sono state ridotte: s’ardia non si faghet; i Santi hanno attraversato il paese in solitaria. A Pozzomaggiore, così come negli altri paesi della Sardegna, si è celebrata una festa a metà, una festa fatta di distanziamento.
Cosa manca? Cosa ci è mancato?
Manca il nostro senso più intimo di Comunità.
Le feste e i Santi che i nostri avi hanno scelto e ci hanno lasciato in dono e in consegna sono un’espressione forte del nostro essere cittadini di un luogo. Sono il modo attraverso cui esprimiamo il nostro essere più intimo. L’eleganza, la bellezza, la cura estrema dei cavalli, la compostezza dei cavalieri. La cura del dettaglio in Chiesa. Un cerimoniale, un codice che ci tramandiamo, che è nostro. Siamo noi.
Manca la festa. Manca la vicinanza.
Manca il nostro offrirci al Santo in tutti i modi sacri e profani che abbiamo sempre conosciuto: l’ardia, i preparativi, il battere ritmico della campana, le processioni, le messe, la birra e sas barracas, il fare tardi ché si sollecita sempre il sorgere del sole, le giostre, le chiacchiere, i voti e le promesse, la corsa elegante e veloce dei cavalli, le bancarelle, l’odore del pesce arrosto, la preghiera, le candele accese e da accendere, il gran chiasso, la gente.
La Chiesa è sempre aperta e tutti accoglie. E tutti entreranno a toccare i Simulacri: San Costantino, Sant’Elena, sua madre, e San Silvestro, il papa che lo battezzò. La partecipazione popolare è tanta, genti che arrivano da tanti luoghi diversi con le loro storie, le promesse fatte e i voti da sciogliere. C’è commozione. Ognuno dinanzi a Santu Antine raccoglie un pezzo di sé e della propria sofferenza quotidiana e la porge al Santo. Insieme a tutte le speranze e ai desideri. E già questa è una cura. Ci riconosciamo uomini e simili nella ricerca costante di infinito o di pacificazione.
E il voto sciolto nei giri di Chiesa e in sas pigadas, nei rituali che accompagnano il succedersi delle generazioni: appaiati eleganti composti, sos caddos nei loro finimenti migliori, corrono verso la Chiesa e poi intorno al Santuario, tra spari e polvere e sas ischiglias. In camicia rossa e coroncina su caddu ‘e punta e sas iscortas e a seguire tutti gli altri cavalieri.
Manca tutto questo e mancano i tanti significati che ognuno di noi attribuisce alla festa: i ricordi d’infanzia e di tutti quelli che non ci sono più. I bambini che portiamo a Santu Antine perché nei loro occhi ci sia la prosecuzione delle tradizioni.
Ma noi non siamo stati sconfitti. Quegli anni abbiamo festeggiato come ci è stato concesso, tenendo forte nel cuore il proposito di far salire ancora al cielo polvere e spari, lo scalpitare dei cavalli, le gran voci e tutte le preghiere sacre e profane per il nostro Santo Cavaliere.